Immissioni intollerabili e natura probatoria della CTU

Con sentenza 7 settembre 2016, n. 17685 la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, si pronuncia sulla natura probatoria della CTU, ribadendo che non rientra tra i mezzi di prova, ma che il suo esperimento è doveroso quando si tratta di situazioni di fatto rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche.

Un soggetto cita in giudizio il vicino, che esercita l'attività di sfasciacarrozze, chiedendo la cessazione delle immissioni di rumore, fumi e vibrazioni provenienti dal suo fondo, oltre al risarcimento dei danni patiti in ragione di tali immissioni.

La causa viene istruita mediante deposizioni testimoniali e produzione di documentazione amministrativa, mentre la CTU richiesta dall'attore non viene ammessa.

Le domande dell'attore vengono respinte dal giudice di primo grado, che non ritiene provato il superamento dei limiti di tollerabilità delle immissioni né il nesso di causalità tra immissioni e danni lamentati.

La Corte d'Appello di Venezia, avanti la quale viene impugnata la sentenza, ne conferma il contenuto, con particolare riguardo alla mancata ammissione della CTU, sulla considerazione che la consulenza tecnica non è mezzo istruttorio ed è pertanto utilizzabile solo laddove la parte abbia assolto il proprio onere probatorio.

Sulla questione interviene la Corte di Cassazione, che cassa la sentenza di secondo grado e rimette la cognizione della causa alla Corte d'Appello di Trento.

La Suprema Corte ricorda che la consulenza tecnica non è di regola mezzo di prova, ma, contrariamente a quanto sostenuto dal collegio veneto, è sempre mezzo istruttorio e in casi come quello di cui è causa è doverosa.

"La consulenza tecnica può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento da accertamento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche".

La motivazione della sentenza di secondo grado, sostiene la Cassazione, è manifestamente insufficiente e contraddittoria, in quanto riconosce la gravità della situazione (danni materiali agli immobili e patologie cliniche) ma omette qualsiasi "sforzo conoscitivo e valutativo appropriati, mediante opportuno uso delle presunzioni e dei mezzi istruttori che siano nella disponibilità del giudice".

Ha pertanto carattere di motivazione apparente quella del giudice che "eluda la decisione di merito", ossia rifiuti di procedere all'accertamento oggettivo dei fatti denunciati e del nesso eziologico tra questi e i danni allegati, negando la richiesta CTU sulla base del mancato assolvimento dell'onere della prova in un caso in cui il "conforto specialistico" è indispensabile.

La sentenza 7 settembre 2016, n. 17685 della Corte di Cassazione, seconda sezione civile, è rintracciabile a questo indirizzo.



Alimenti: il mantenimento per il figlio non è ripetibile se già corrisposto

Con ordinanza n. 13609 del 4 luglio 2016, la Sezione VI-1 della Cassazione si è occupata della ripetibilità dell'assegno di mantenimento corrisposto al figlio maggiorenne non economicamente indipendente dopo la dichiarazione giudiziale di cessazione dell'obbligo contributivo.

L'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni discende dagli articoli 147 e 148 c.c. e cessa a seguito del raggiungimento, da parte di questi, di una effettiva e completa condizione di indipendenza economica.

La statuizione giudiziale di modifica delle condizioni del mantenimento ha effetto retroattivo al momento della domanda.

Quid iuris per le prestazioni già corrisposte o comunque dovute in questo lasso temporale?

Confermando un principio già espresso, la Corte ha ribadito che "il carattere sostanzialmente alimentare dell'assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi d'irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, con la conseguenza che la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo."

"Mentre ove il soggetto obbligato" continua la Corte "non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione."

L'ordinanza n. 13609 del 4 luglio 2016 della Sezione VI-1 della Corte di Cassazione è rintracciabile a questo indirizzo.

Condominio: legittimità della posizione di tubature nel sottosuolo dell'aia comune

La Corte di Cassazione Sez. II , con sentenza n. 18661 del 22.09.2015, ha stabilito che il comproprietario di un cortile può porre nel sottosuolo tubature per lo scarico fognario e l'allacciamento  del gas a vantaggio della propria unità immobiliare, trattandosi di un uso conforme all'art. 1102 c.c , in quanto non limita, né condiziona, l'analogo uso degli altri comunisti. .

Il godimento delle cose, degli impianti e dei servizi comuni, a vantaggio di piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva, può attuarsi anche mediante l'imposizione su queste parti di veri e propri pesi a beneficio delle unità immobiliari che, astrattamente considerati, darebbero luogo, al sorgere di una relazione tra le cose che presenti le connotazioni della servitù, ma , fino a quando i partecipanti utilizzano le parti comuni accessorie secondo la usuale destinazione a vantaggio delle unità immobiliari, vale a dire nell'ambito delle facoltà d'uso e di godimento inerenti al contenuto del diritto del condominio, non può certamente parlarsi di imposizione di servitù sulle cose comuni.

In tale prospettiva il comproprietario di un cortile può legittimamente scavare il sottosuolo per installarvi tubi onde allacciare un bene di sua proprietà esclusiva agli impianti idrico-fognario-gas metano centrali  perché, da un lato non viene alterata la destinazione del cortile ad illuminare ed arieggiare le unità immobiliari degli altri condomini, dall'altro rientra nella funzione sussidiaria del sottosuolo del cortile il passaggio in esso di tubi e condutture.

La sentenza n. 18661 del 22/09/2015 , sez. II della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte di Cassazione all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/.

Condominio: illegittima l'assegnazione in via esclusiva di parcheggi nell'area comune

Con la sentenza n. 11034 del 27 maggio 2016 la Sezione Seconda della Corte di Cassazione affronta la questione della legittimità di una delibera condominiale, presa a semplice maggioranza, che disciplina il godimento di uno spazio comune - una parte dell'area di cortile - beneficiando alcuni condomini a svantaggio di altri.

Nel caso di specie, la delibera aveva concesso l'utilizzazione esclusiva di alcune piazzole per il parcheggio dei veicoli a dei condomini, impedendo, di fatto, agli altri l'utilizzazione di quella parte di cortile comune.

Il Giudice di primo grado aveva dichiarato la nullità della delibera, giacché non adottata all'unanimità, mentre la Corte d'Appello aveva ritenuto valida la deliberazione a semplice maggioranza ex art. 1136 c.c.

La Corte di Cassazione, pur riconoscendo in linea di principio la correttezza dell'affermazione del Giudice di secondo grado, ne limita la portata ai casi in cui tale deliberazione regolamenti un uso ed un godimento nel senso di disporre una innovazione diretta al miglioramento, all'uso più comodo, o al maggior rendimento delle cose comuni a norma dell'art. 1120, c. 1, c.c.

Secondo la Corte è lo stesso art. 1120 c.c. a marcare il limite che si frappone all'attuazione di innovazioni che abbiano un diverso effetto: il secondo (ora quarto) comma dell'articolo prevede infatti che siano vietate le innovazioni "che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino".

Il divieto ha proprio lo scopo di evitare che il singolo condomino veda contrarsi il suo diritto di godere, entro i limiti della propria quota, di parti del condominio che sono comuni, e quindi destinate alla fruizione collettiva.

Sulla scorta di tali considerazioni il Collegio afferma che l'assegnazione in via esclusiva e per un tempo indefinito di posti macchina all'interno di un'area condominiale è illegittima, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune.

L'assegnazione è dunque di per sé lesiva di un uso e godimento paritario del bene: uso e godimento che va apprezzato sulla scorta di un'astratta valutazione del rapporto di equilibrio che deve essere mantenuto tra tutte le possibili concorrenti fruizioni del bene stesse da parte dei partecipanti al condominio.

La delibera viene dunque dichiarata nulla, giacché approva una utilizzazione particolare del bene comune che reca pregiudizio ai coesistenti diritti altrui.

La sentenza n. 11034 del 27 maggio 2016 è reperibile sul sito della Corte di Cassazione a questo indirizzo.

Infiltrazioni dal lastrico solare: per le SS.UU. rispondono sia il proprietario che il condominio

Con la sentenza n. 9449 del 10 maggio 2016 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di responsabilità per danni prodotti all'appartamento sottostante dalle infiltrazioni di acqua piovana provenienti dal lastrico solare.

Innovando parzialmente un proprio precedente risalente al 1997 (SS.UU. n. 3672/1997), i Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che

"allorquando l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare (o della terrazza a livello), in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio, o di parte di esso, propria del lastrico solare (o della terrazza a livello), ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all'amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni (art. 1130, primo comma, n. 4, cod. civ.) e all'assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria (art. 1135, primo comma, n. 4, cod. civ.). Il concorso di tali responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all'uno o all'altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall'art. 1126 cod. civ., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio".

In altre parole, quando il lastrico è di proprietà o uso esclusivo di uno di un condomino, per la parte apparente, e quindi per la superficie, costituisce oggetto dell'uso esclusivo di chi abbia il relativo diritto; per l'altra parte, e segnatamente per la parte strutturale sottostante, costituisce cosa comune, in quanto contribuisce ad assicurare la copertura dell'edificio o di parte di esso.

Per tali motivi la responsabilità dei danni derivanti da infiltrazioni di acqua piovana all'appartamento sottostante deve essere attribuita in via concorrente al proprietario (o usuario) esclusivo e all'intero condominio.

Ciò, tuttavia, in proporzioni ed in virtù di titoli diversi.

Quanto al proprietario (o usuario) esclusivo, la Suprema Corte attribuisce ad esso la qualità di custode del lastrico solare, del quale è responsabile in conformità al disposto dell'art. 2051 c.c.; quanto al condominio, la funzione di copertura dell'intero edificio (o di parte dello stesso) svolta dal lastrico, determina in capo all'amministratore il dovere di eseguire tutti i controlli che si rendano necessari alla conservazione delle parti comuni, in conformità al disposto dell'art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., e in capo all'assemblea il dovere di provvedere alle opere di manutenzione di carattere straordinario, in virtù del contenuto dell'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c.

La misura della responsabilità di ciascuno è poi stabilita dall'art. 1126 c.c., che, in tema di ripartizione delle spese di riparazione e ricostruzione, le imputa per un terzo al proprietario (o usuario) esclusivo del lastrico e per i restanti due terzi al condominio.

Ovviamente è fatta salva la prova da parte di quest'ultimo dell'imputazione del danno alla condotta colpevole del solo proprietario o del titolare del diritto esclusivo.

La soluzione, nel concreto, non diverge da quella del 1997, che già aveva distribuito la responsabilità nelle quote del terzo per il condominio e dei due terzi per il singolo proprietario-usuario.

All'epoca, tuttavia, diverso era l'inquadramento normativo che la Corte aveva effettuato.

Piuttosto che far riferimento al disposto dell'art. 2051 c.c., ed al generale principio del neminem laedere, i Giudici di Piazza Cavour avevano ricollegato la responsabilità in parola alla titolarità del diritto reale, configurandola quale immediata conseguenza dell'inadempimento dell'obbligo di conservare le parti comuni, posto a carico dei singoli condomini ex art. 1123, comma 1, c.c. e del titolare della proprietà superficiaria e dell'uso esclusivo ex art. 1126 c.c.

La giurisprudenza successiva non si era tuttavia uniformata all'impostazione data dalla Corte, essendosi registrate alcune decisioni che riconducevano tale responsabilità nell'ambito di applicazione dell'art. 2051 c.c.

Da ciò la nuova rimessione alle Sezioni Unite e la sentenza in commento.

La riconduzione di tale tipologia di danno nell'alveo della responsabilità civile comporta l'applicabilità alla fattispecie di tutte le norme in tema di responsabilità extracontrattuale, comprese quelle relative ai termini di prescrizione, nonché all'imputazione della responsabilità.

Conseguentemente potrà ritenersi responsabile esclusivamente il soggetto che risultava titolare del diritto di proprietà o dell'uso esclusivo del lastrico al momento del verificarsi del danno, escludendo l'eventuale acquirente successivo.

Trovano inoltre applicazione il principio della responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. e l'intera disciplina dell'art. 2051 c.c. per quanto concerne i limiti alla esclusione della responsabilità del custode.

La sentenza n. 9449 del 10 maggio 2016 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/sentenze.page

Carta di credito: obbligo di custodia e di denuncia tempestiva alla banca in caso di furto

La corte di Cassazione, con sentenza Sez. I,  07 aprile 2016, n. 6751, si è pronunciata circa gli obblighi di custodia della carta di credito in capo al titolare  ed alle conseguenze derivanti dell'omessa custodia della stessa ed alla non tempestiva denuncia del furto.

In particolare, la Corte ritiene, nel caso di specie, che fosse accertato un grave inadempimento del cliente alle obbligazioni nei confronti dell'Istituto di Credito.

In particolare  il titolare della carta di credito:
  1. non aveva diligentemente custodito la carta di credito nella palestra ove aveva esercitato attività motoria, tanto da subirne il furto;
  2. non aveva diligentemente verificato il perdurante possesso della stessa carta , tanto da essersi accorto del furto solo nella giornata successiva ;
  3. non aveva tempestivamente avvisato la banca dell'avvenuta perdita di possesso.

In conseguenza delle circostanze sopra esposte,  l'Istituto di emissione è legittimato a contestare al titolare della carta una colpa, facendogli  corrispondere un importo pari agli  acquisti effettuati dal ladro nelle more della denuncia.

La sentenza n. 6751 del 07 aprile 2016 della Sezione I della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

Siti web degli avvocati: il nuovo art. 35 del Codice Deontologico

Nella Gazzetta Ufficiale scorso n. 102 dello scorso 3 maggio è stata pubblicata la delibera con cui il Consiglio Nazionale Forense ha disposto la modifica dell'art. 35 del Codice deontologico forense (link).

Il nuovo art. 35 recita:
«Art. 35 - Dovere di corretta informazione».
1. L'avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell'obbligazione professionale.
2. L'avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti nè equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l'attività professionale.
3. L'avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo professionale, la denominazione dello studio e l'Ordine di appartenenza.
4. L'avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia stato docente universitario di materie giuridiche; specificando in ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
5. L'iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso il titolo di «praticante avvocato», con l'eventuale indicazione di «abilitato al patrocinio» qualora abbia conseguito tale abilitazione.
6. Non è consentita l'indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente collegati con lo studio dell'avvocato.
7. L'avvocato non può utilizzare nell'informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi.
8. Nelle informazioni al pubblico l'avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorchè questi vi consentano.
9. Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi di dignità e decoro della professione.
10. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura.»
La modifica è volta a chiarire la portata della norma deontologica, aprendo alla libertà dei canali comunicativi (tramite l’inciso “quale che sia il mezzo utilizzato per rendere le informazioni”), ed eliminando il riferimento specifico alla disciplina dei siti web che la “vecchia” versione vietava nel caso di re-indirizzamento e/o in caso di contenuti di natura commerciale e/o pubblicitaria.

Qualsiasi mezzo è dunque ammesso (e dunque anche siti web con o senza re-indirizzamento), purché la informazione rispetti i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale e rispettando i principi cardine della professione di dignità e decoro.

Info: http://www.codicedeontologico-cnf.it/?tag=35-ncdf 

Appalto: i difetti relativi all'isolamento acustico possono costituire gravi difetti costruttivi ex art. 1669 c.c.

Con sentenza n. 12818 pubblicata il 13 novembre 2015, la sezione VII del Tribunale di Milano ha ricondotto il problema dell'inadeguato isolamento acustico di un edificio alla categoria del grave difetto costruttivo rientrante nella tutela di cui all'art. 1669 c.c.

Come chiarito dal Tribunale, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità la nozione di difetto di costruzione ricomprende anche alterazioni che non investono parti essenziali dell'immobile, ma quegli elementi secondari o accessori funzionali all'impiego duraturo dell'opera e tali peraltro da incidere in modo considerevole sul godimento dell'immobile.

Sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica, che ha constatato l'idoneità di tali difetti a pregiudicare in modo sensibile il godimento e la utilizzazione delle unità abitative, e dunque ad incidere sulla funzione abitativa del bene, il Giudice ha condannato appaltatore, progettista, direttore dei lavori e tecnici incaricati di predisporre la relazione sui requisiti acustici dell'immobile al risarcimento del danno.

Se l'alunno cade in palestra, anche esterna alla scuola, la responsabilità è sempre dell'Istituto scolastico

Con sentenza n. 3695 del 25 febbraio 2015 la Sezione III della Corte di Cassazione si è occupata del caso di una minore che, alla fine dell'ora di educazione fisica, tenuta in un centro sportivo esterno all'Istituto scolastico, è scivolata nei spogliatoi a causa del pavimento bagnato riportando danni, anche permanenti, alla bocca.

I genitori avevano chiesto il risarcimento dei danni al Ministero dell'Istruzione, ma il Tribunale aveva rigettato la domanda, rilevando l'assenza di rapporto causale tra l'evento e la condotta del personale scolastico, che non aveva potuto evitare la caduta determinata da accidentalità fortuita.

Il Giudice d'appello aveva confermato la decisione sulla scorta della mancata allegazione da parte dell'appellante della condotta idonea a prevenire o limitare la probabilità del sinistro, diversa da quella concretamente posta in essere dal personale insegnante.

La Corte di Cassazione ritiene illegittimo un tale aggravio dell'onere probatorio a carico del danneggiato.

E' principio consolidato, sostiene infatti la Corte, che in caso di danno cagionato dall'alunno a sé stesso, la responsabilità dell'Istituto scolastico e dell'insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all'Istituto, l'accoglimento della domanda di iscrizione determina l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge l'obbligo di vigilare sulla sicurezza e sull'incolumità del discepolo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

Quanto al precettore, tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico nell'ambito del quale il primo assume anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza onde evitare che l'alunno si procuri da solo un danno alla persona.

Ne deriva, prosegue la Corte, che nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell'Istituto scolastico e dell'insegnante, è applicabile il regime probatorio imposto dall'art. 1218 c.c, sicché, mentre il danneggiato deve provare esclusivamente che l'evento dannoso si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sulla scuola incombe l'onere di dimostrare che l'evento è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante.

Né assume rilievo, conclude il Collegio, la circostanza che i locali dello spogliatoio non fossero dell'istituto scolastico, ma fossero ubicati in un centro polisportivo gestito da altri enti, sia perché anche il detentore è custode, salvo che provi l'assoluta mancanza di potere di ingerenza o di intervento sul bene che, per anomalia estrinseca, è divenuto dannoso, sia perché la ricorrente aveva posto a fondamento della domanda risarcitoria l'omessa vigilanza anche sui locali adibiti a spogliatoio prima di consentirne l'uso ai discenti.

Scuola e insegnante avrebbero dunque dovuto predisporre gli accorgimenti necessari per evitare l'evento dannoso.

La sentenza n. 3696 del 25 febbraio 2016 della Sezione III della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

Nudo proprietario ed usufruttuario: ripartizione delle spese

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22703/15, sez.II, ha chiarito come devono essere ripartite le spese di manutenzione dell'immobile fra nudo proprietario ed usufruttuario.


In particolare, nella sentenza si legge che ciò che rileva, ai fini della distinzione tra gli interventi gravanti a carico dell'usufruttuario e del nudo proprietario, non è la maggiore o minore attualità del danno da riparare, ma l'assenza e la natura dell'opera, e cioè il suo carattere di ordinarietà o straordinarietà, in quanto solo tale caratterizzazione incide sul diritto di cui l'uno o l'altro dei due soggetti sono titolari.

Ne consegue che, dal momento che all'usufruttuario spetta l'uso ed il godimento della cosa, si deve a lui lasciare la responsabilità e l'onere di provvedere a tutto ciò che riguarda la conservazione ed il godimento dell'immobile nella sua sostanza materiale e nella sua attitudine produttiva; di contro, si devono riservare al nudo proprietario le opere che incidono sulla struttura, la sostanza e la destinazione dell'immobile, in quanto le stesse afferiscono alla nuda proprietà.

La sentenza n. 22703/15 della sez. II della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte di Cassazione all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/.

Facebook: il post offensivo è reato

Con sentenza 1 marzo 2016 , n. 8328, la sezione quinta della Corte di Cassazione ha affermato che l'inserimento su Facebook di un post diffamatorio integra la fattispecie di diffamazione aggravata ex art. 595, 3° comma, cod. pen.

La pronuncia si inserisce all'interno di un orientamento consolidato, secondo cui il reato di diffamazione può essere commesso a mezzo di internet (cfr. Sez. 5, 17 novembre 2000, n. 4741; 4 aprile 2008 n. 16262; 16 luglio 2010 n. 35511 e, da ultimo, 28 ottobre 2011 n. 44126), sussistendo, in tal caso, l'ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice (cfr. altresì sul punto, Cass., Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, Rv. 254044), dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 16262 del 04/04/2008).

Per comune esperienza, evidenzia la Suprema Corte, "bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l'utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015)".

Per tale ragione "la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall'art. 595 c.p.p., comma (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015)".

Nella fattispecie la condotta consisteva nell'aver pubblicato sul proprio profilo Facebook alcune frasi associandole all'immagine della persona, tra cui - "...per pararsi il culo, il parassita è capace anche di questo", con associata immagine del R. F.;- "... eroe del risanamento, o parassita del sistema clientelare? Quando i cialtroni diventano parassiti, vengono sputtanati dai giornali... ", con associata immagine del R. F.;- "... devo andare a pescare, mi serve un verme, quale mi consigliate ?", con associata immagine del R. F.;- "... io la farei mangiare a quel parassita di R. F., che vale quanto una fava masticata,..- ...R. F. è solo un mercenario ultra-pagato, che non gli frega un cazzo dei vulnerabili, tanto lui, al mese, lo stipendio lo prende....".

La sentenza 1 marzo 2016 , n. 8328, della  Corte di Cassazione, sez. V, è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/ 

Responsabilità civile: della "truffa del bancomat" potrebbe rispondere anche la banca

Con sentenza n. 806 del 19 gennaio 2016 la Sezione I della Corte di Cassazione si è occupata di un caso di sottrazione di scheda bancomat mediante manomissione dello sportello bancario - c.d. ^truffa del bancomat^ - con successivi ampi prelievi dal conto del cliente, valutando i possibili profili di corresponsabilità della banca.

La fattispecie è nota.

Un cittadino si reca allo sportello bancomat della propria banca per effettuare un prelievo, ma questo trattiene la sua carta visualizzando sullo schermo l'avviso "carta illeggibile" e successivamente "sportello fuori servizio". Ingenuamente accetta l'aiuto di passante che così carpisce il pin della carta. Segnala immediatamente l'accaduto al vice direttore della filiale, il quale gli consiglia di tornare il giorno seguente per il recupero della carta. Ma il giorno seguente la carta non si trova e il cittadino scopre che in quello stesso giorno e in quello precedente ignoti avevano effettuato consistenti prelievi dal suo conto corrente. L'evento viene comunicato per iscritto al vice direttore e viene sporta regolare denuncia.

Il cittadino chiede allora alla banca di essere risarcito per il danno subito, ma sia il Tribunale che la Corte d'Appello rigettano la sua domanda, attribuendogli la negligenza di aver digitato il codice pin sotto gli occhi del truffatore, senza poi tempestivamente attivare il blocco, nonché di aver dato comunicazione solo verbale al vice direttore senza far menzione della presenza di un terzo.

Ricorrendo in Cassazione, il cittadino evidenzia come le pronunce di I e II grado non avessero preso in considerazione le negligenze della banca, e segnatamente:
- una condotta totalmente omissiva, in violazione dell'art. 1176, c. 2, c.c., a fronte della segnalazione immediatamente fatta dal cliente;
- la mancata messa in opera di strumenti idonei a garantire gli impianti da manomissione, dovendo rispondere, in mancanza, dei relativi rischi;
- la mancata attivazione a fronte di prelievi ripetuti e per importi superiori al plafond giornaliero contrattualmente previsto.

La Corte di Cassazione accoglie l'impostazione del ricorrente e censura la sentenza della Corte d'Appello per non aver valutato il comportamento della banca secondo il parametro della diligenza professionale qualificata ex art. 1176, c. 2, c.c.

Poiché lo stesso articolo, tuttavia, non specifica quale sia la misura della diligenza nelle obbligazioni inerenti l'esercizio di un'attività professionale, è compito del Giudice verificare in concreto quanta diligenza avrebbe dovuto avere la banca sia nell'esercizio dell'obbligo di custodia di uno strumento esposto al pubblico, sia nell'attivazione di misure idonee a fronte dell'immediata, seppur verbale, notizia dell'accaduto, nonché di prelievi largamente eccedenti il plafond pattuito.  

Da ciò la cassazione con rinvio della sentenza di II grado.

La sentenza n. 806 del 19 gennaio 2016 della Sezione I della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

Incendio in un capannone: il conduttore non risponde se è provata la causazione da parte di un terzo, anche se ignoto

Con sentenza n. 25221 del 15 dicembre 2015 la Sezione III della Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità del conduttore per perdita o deterioramento della cosa locata ex art. 1588 c.c. nella particolare fattispecie dell'incendio di un capannone.

Riconoscendo il principio della presunzione di colpa a carico del conduttore, il quale può liberarsi della responsabilità oggettivamente attribuitagli dalla norma solo dimostrando che la causa dell'incendio, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, la Corte ritiene non sufficiente a tal fine l'avvenuta esclusione della sua responsabilità in sede penale.

Tale circostanza, sostiene la Corte, non comporta di per sé l'identificazione della causa dell'incendio, occorrendo che questa sia nota e possa dirsi non addebitabile al conduttore.

Riprendendo un precedente in tal senso (Cass. n. 15721/15), secondo il Collegio, ciò che rileva ai fini della prova liberatoria è l'accertamento, secondo gli standards probatori del nesso eziologico propri del procedimento civile, improntati al "più probabile che non", che l'incendio sia ascrivibile ad un terzo, non essendo invece rilevante che si conosca la sua identità.

Diversamente ragionando, prosegue la Corte, il conduttore verrebbe a rispondere non di un inadempimento contrattuale (mancata o difettosa custodia e vigilanza sulla cosa locata), ma dell'insuccesso dell'attività di indagine, il cui compimento e la cui responsabilità non gravano su di lui. 

In altre parole, il caso fortuito, e dunque la dimostrazione della non imputabilità dell'incendio al conduttore ex art. 1588 c.c., è configurato già solo con l'accertamento positivo dell'origine dell'incendio in una causa comunque non imputabile al conduttore, senza che rilevi la mancata identificazione del terzo responsabile.

La pronuncia n. 25221 del 15 dicembre 2015 della Sezione III della Corte di Cassazione, nonché i precedenti richiamati, sono rintracciabili sul sito della Corte all'indirizzo  http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/..


Nascita indesiderata: risarcibilità del danno

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 25767 del 22/12/2015, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, a risoluzione di contrasto giurisprudenziale, , hanno affermato che:

a) la madre ha l'onere di provare la volontà abortiva, ma può assolvere a suddetto onere anche mediante presunzioni semplici;
b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da "vita ingiusta", poiché il nostro ordinamento ignora il "diritto a non nascere se non sano".

La sentenza Sezioni Unite  n. 25767 del 22/12/2015 della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte di Cassazione all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/.

Divorzio: niente mantenimento per il figlio maggiorenne fuoricorso all'Università

Per giurisprudenza consolidata il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa ove il genitore onerato dia la prova che il figlio abbia raggiunto l'autosufficienza economica oppure che, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita.

Nella fattispecie, in applicazione di tale principio, la sezione I della Corte di Cassazione con sentenza n. 1858 del 1 febbraio 2016 ha confermato la revoca dell'assegno di mantenimento disposta dalla Corte d'Appello dopo aver evidenziato come i coniugi avessero dato ai propri figli l'opportunità di frequentare l'Università.

Entrambi fuoricorso, avevano dimostrato di non averne tratto alcun profitto.

Da ciò il venir meno della ratio del mantenimento.

La sentenza n. 1858 del 1 febbraio 2016 della Sezione I della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo  http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/
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