Efficacia e natura del divieto contenuto nel regolamento condominiale di adibire appartamenti a Bed and Breakfast

La Corte di Cassazione si è interrogata circa l'opponibilità, efficacia e natura del divieto contenuto nel regolamento condominiale di adibire appartamenti a Bed and Breakfast.

In particolare, la Suprema Corte, con sentenza della Sez. Civile II  n. 21024/2016 ha ribadito il concetto secondo cui il regolamento predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio, ove accettato dagli iniziali acquirenti dei singoli piani e regolarmente trascritto begli appositi registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vincola tutti i successivi acquirenti anche con riferimento alle clausole che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive. E ciò in quanto si viene a costituire su quest'ultime una servitù reciproca . Principio già enunciato ex pluris in Cass. n3749/99; conforme Cass. n. 14898/13, con riferimento ad un supercondominio).

In sostanza ritiene il Collegio, nel risolvere la questione sottoposta al proprio esame, che, in materia di regolamento condominiale convenzionale, la previsione nella stessa contenuta, che prescrive limiti alle proprietà esclusive, deve essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obligationes propter rem, in quanto incide proprio sull'esercizio del diritto di ciascun condomino .

Ricondotta alla servitù, l'opponibilità ai terzi acquirenti dei limiti alla destinazione delle proprietà esclusive in ambito condominiale va regolata secondo le norme proprie di questa, e, pertanto, avendo cura della trascrizione del relativo peso, indicando nella nota di trascrizione, ai sensi degli artt. 2659, primo comma, n. 2 e 2665 c.c, le specifiche clausole limitative, non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale.

La sentenza della Cass. Civile , Sez. II n.21024 del 18/10/2016 è rintracciabile a questo indirizzo:

Uso della cosa comune: illegittima la modifica del terrazzo condominiale ad uso esclusivo

Con sentenza n. 23243 del 15 novembre 2016 la Sezione II della Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla portata dell'art. 1102 c.c. in tema di uso esclusivo della cosa comune in condominio.

Nello specifico, la Corte è chiamata a risolvere la questione della sussistenza della facoltà per il condomino dell'ultimo piano di un edificio condominiale, di costruire sul tetto dell'edificio stesso una "altana" (denominata anche "belvedere"), manufatto tipico veneziano, consistente in una piattaforma o loggetta realizzata nella parte più elevata di un edificio (alla quale si accede, in genere, dall'abbaino) che, in alcuni casi, può anche sostituire il tetto e che, a differenza delle terrazze e dei balconi, non sporge, di norma, rispetto al corpo principale dell'edificio di pertinenza.

In primo luogo, la Corte ricorda che per giurisprudenza consolidata sono legittimi, ai sensi dell'art. 1102 c.c., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.

Per converso, deve qualificarsi illegittima la trasformazione - anche solo di una parte - del tetto dell'edificio in terrazza ad uso esclusivo del singolo condomino, risultando in tal modo alterata la originaria destinazione della cosa comune, sottratta all'utilizzazione da parte degli altri condomini.

In applicazione di tale ultimo principio, ricordando che il manufatto in questione non costituisce nuova fabbrica in sopraelevazione agli effetti dell'art. 1127 c.c. quanto piuttosto modifica della situazione preesistente, attuata attraverso una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte del tetto comune, il Collegio sconfessa la Corte territoriale e accoglie il ricorso di altro condomino teso a far valere la violazione dell'art. 1102 c.c.

In altre parole, conclude la Corte, qualora il proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale provveda a modificare una parte del tetto trasformandola in terrazza (od occupandola con altra struttura equivalente od omologa) a proprio uso esclusivo, tale modifica è da ritenere illecita, non potendo essere invocato l'art. 1102 c.c., poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al miglior godimento della cosa comune, bensì all'appropriazione di una parte di questa, che viene definitivamente sottratta ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, senza che possa assumere rilievo il fatto che la parte di tetto sostituita od occupata permanentemente continui a svolgere la funzione di copertura dell'immobile.

La sentenza della Sezione II della Corte di Cassazione, n. 23243 del 15 novembre 2016 è rintracciabile a questo indirizzo.

Immissioni intollerabili e natura probatoria della CTU

Con sentenza 7 settembre 2016, n. 17685 la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, si pronuncia sulla natura probatoria della CTU, ribadendo che non rientra tra i mezzi di prova, ma che il suo esperimento è doveroso quando si tratta di situazioni di fatto rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche.

Un soggetto cita in giudizio il vicino, che esercita l'attività di sfasciacarrozze, chiedendo la cessazione delle immissioni di rumore, fumi e vibrazioni provenienti dal suo fondo, oltre al risarcimento dei danni patiti in ragione di tali immissioni.

La causa viene istruita mediante deposizioni testimoniali e produzione di documentazione amministrativa, mentre la CTU richiesta dall'attore non viene ammessa.

Le domande dell'attore vengono respinte dal giudice di primo grado, che non ritiene provato il superamento dei limiti di tollerabilità delle immissioni né il nesso di causalità tra immissioni e danni lamentati.

La Corte d'Appello di Venezia, avanti la quale viene impugnata la sentenza, ne conferma il contenuto, con particolare riguardo alla mancata ammissione della CTU, sulla considerazione che la consulenza tecnica non è mezzo istruttorio ed è pertanto utilizzabile solo laddove la parte abbia assolto il proprio onere probatorio.

Sulla questione interviene la Corte di Cassazione, che cassa la sentenza di secondo grado e rimette la cognizione della causa alla Corte d'Appello di Trento.

La Suprema Corte ricorda che la consulenza tecnica non è di regola mezzo di prova, ma, contrariamente a quanto sostenuto dal collegio veneto, è sempre mezzo istruttorio e in casi come quello di cui è causa è doverosa.

"La consulenza tecnica può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento da accertamento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche".

La motivazione della sentenza di secondo grado, sostiene la Cassazione, è manifestamente insufficiente e contraddittoria, in quanto riconosce la gravità della situazione (danni materiali agli immobili e patologie cliniche) ma omette qualsiasi "sforzo conoscitivo e valutativo appropriati, mediante opportuno uso delle presunzioni e dei mezzi istruttori che siano nella disponibilità del giudice".

Ha pertanto carattere di motivazione apparente quella del giudice che "eluda la decisione di merito", ossia rifiuti di procedere all'accertamento oggettivo dei fatti denunciati e del nesso eziologico tra questi e i danni allegati, negando la richiesta CTU sulla base del mancato assolvimento dell'onere della prova in un caso in cui il "conforto specialistico" è indispensabile.

La sentenza 7 settembre 2016, n. 17685 della Corte di Cassazione, seconda sezione civile, è rintracciabile a questo indirizzo.



Alimenti: il mantenimento per il figlio non è ripetibile se già corrisposto

Con ordinanza n. 13609 del 4 luglio 2016, la Sezione VI-1 della Cassazione si è occupata della ripetibilità dell'assegno di mantenimento corrisposto al figlio maggiorenne non economicamente indipendente dopo la dichiarazione giudiziale di cessazione dell'obbligo contributivo.

L'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni discende dagli articoli 147 e 148 c.c. e cessa a seguito del raggiungimento, da parte di questi, di una effettiva e completa condizione di indipendenza economica.

La statuizione giudiziale di modifica delle condizioni del mantenimento ha effetto retroattivo al momento della domanda.

Quid iuris per le prestazioni già corrisposte o comunque dovute in questo lasso temporale?

Confermando un principio già espresso, la Corte ha ribadito che "il carattere sostanzialmente alimentare dell'assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi d'irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, con la conseguenza che la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo."

"Mentre ove il soggetto obbligato" continua la Corte "non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione."

L'ordinanza n. 13609 del 4 luglio 2016 della Sezione VI-1 della Corte di Cassazione è rintracciabile a questo indirizzo.

Condominio: legittimità della posizione di tubature nel sottosuolo dell'aia comune

La Corte di Cassazione Sez. II , con sentenza n. 18661 del 22.09.2015, ha stabilito che il comproprietario di un cortile può porre nel sottosuolo tubature per lo scarico fognario e l'allacciamento  del gas a vantaggio della propria unità immobiliare, trattandosi di un uso conforme all'art. 1102 c.c , in quanto non limita, né condiziona, l'analogo uso degli altri comunisti. .

Il godimento delle cose, degli impianti e dei servizi comuni, a vantaggio di piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva, può attuarsi anche mediante l'imposizione su queste parti di veri e propri pesi a beneficio delle unità immobiliari che, astrattamente considerati, darebbero luogo, al sorgere di una relazione tra le cose che presenti le connotazioni della servitù, ma , fino a quando i partecipanti utilizzano le parti comuni accessorie secondo la usuale destinazione a vantaggio delle unità immobiliari, vale a dire nell'ambito delle facoltà d'uso e di godimento inerenti al contenuto del diritto del condominio, non può certamente parlarsi di imposizione di servitù sulle cose comuni.

In tale prospettiva il comproprietario di un cortile può legittimamente scavare il sottosuolo per installarvi tubi onde allacciare un bene di sua proprietà esclusiva agli impianti idrico-fognario-gas metano centrali  perché, da un lato non viene alterata la destinazione del cortile ad illuminare ed arieggiare le unità immobiliari degli altri condomini, dall'altro rientra nella funzione sussidiaria del sottosuolo del cortile il passaggio in esso di tubi e condutture.

La sentenza n. 18661 del 22/09/2015 , sez. II della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte di Cassazione all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/.

Condominio: illegittima l'assegnazione in via esclusiva di parcheggi nell'area comune

Con la sentenza n. 11034 del 27 maggio 2016 la Sezione Seconda della Corte di Cassazione affronta la questione della legittimità di una delibera condominiale, presa a semplice maggioranza, che disciplina il godimento di uno spazio comune - una parte dell'area di cortile - beneficiando alcuni condomini a svantaggio di altri.

Nel caso di specie, la delibera aveva concesso l'utilizzazione esclusiva di alcune piazzole per il parcheggio dei veicoli a dei condomini, impedendo, di fatto, agli altri l'utilizzazione di quella parte di cortile comune.

Il Giudice di primo grado aveva dichiarato la nullità della delibera, giacché non adottata all'unanimità, mentre la Corte d'Appello aveva ritenuto valida la deliberazione a semplice maggioranza ex art. 1136 c.c.

La Corte di Cassazione, pur riconoscendo in linea di principio la correttezza dell'affermazione del Giudice di secondo grado, ne limita la portata ai casi in cui tale deliberazione regolamenti un uso ed un godimento nel senso di disporre una innovazione diretta al miglioramento, all'uso più comodo, o al maggior rendimento delle cose comuni a norma dell'art. 1120, c. 1, c.c.

Secondo la Corte è lo stesso art. 1120 c.c. a marcare il limite che si frappone all'attuazione di innovazioni che abbiano un diverso effetto: il secondo (ora quarto) comma dell'articolo prevede infatti che siano vietate le innovazioni "che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino".

Il divieto ha proprio lo scopo di evitare che il singolo condomino veda contrarsi il suo diritto di godere, entro i limiti della propria quota, di parti del condominio che sono comuni, e quindi destinate alla fruizione collettiva.

Sulla scorta di tali considerazioni il Collegio afferma che l'assegnazione in via esclusiva e per un tempo indefinito di posti macchina all'interno di un'area condominiale è illegittima, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune.

L'assegnazione è dunque di per sé lesiva di un uso e godimento paritario del bene: uso e godimento che va apprezzato sulla scorta di un'astratta valutazione del rapporto di equilibrio che deve essere mantenuto tra tutte le possibili concorrenti fruizioni del bene stesse da parte dei partecipanti al condominio.

La delibera viene dunque dichiarata nulla, giacché approva una utilizzazione particolare del bene comune che reca pregiudizio ai coesistenti diritti altrui.

La sentenza n. 11034 del 27 maggio 2016 è reperibile sul sito della Corte di Cassazione a questo indirizzo.

Infiltrazioni dal lastrico solare: per le SS.UU. rispondono sia il proprietario che il condominio

Con la sentenza n. 9449 del 10 maggio 2016 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di responsabilità per danni prodotti all'appartamento sottostante dalle infiltrazioni di acqua piovana provenienti dal lastrico solare.

Innovando parzialmente un proprio precedente risalente al 1997 (SS.UU. n. 3672/1997), i Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che

"allorquando l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare (o della terrazza a livello), in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio, o di parte di esso, propria del lastrico solare (o della terrazza a livello), ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all'amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni (art. 1130, primo comma, n. 4, cod. civ.) e all'assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria (art. 1135, primo comma, n. 4, cod. civ.). Il concorso di tali responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all'uno o all'altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall'art. 1126 cod. civ., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio".

In altre parole, quando il lastrico è di proprietà o uso esclusivo di uno di un condomino, per la parte apparente, e quindi per la superficie, costituisce oggetto dell'uso esclusivo di chi abbia il relativo diritto; per l'altra parte, e segnatamente per la parte strutturale sottostante, costituisce cosa comune, in quanto contribuisce ad assicurare la copertura dell'edificio o di parte di esso.

Per tali motivi la responsabilità dei danni derivanti da infiltrazioni di acqua piovana all'appartamento sottostante deve essere attribuita in via concorrente al proprietario (o usuario) esclusivo e all'intero condominio.

Ciò, tuttavia, in proporzioni ed in virtù di titoli diversi.

Quanto al proprietario (o usuario) esclusivo, la Suprema Corte attribuisce ad esso la qualità di custode del lastrico solare, del quale è responsabile in conformità al disposto dell'art. 2051 c.c.; quanto al condominio, la funzione di copertura dell'intero edificio (o di parte dello stesso) svolta dal lastrico, determina in capo all'amministratore il dovere di eseguire tutti i controlli che si rendano necessari alla conservazione delle parti comuni, in conformità al disposto dell'art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., e in capo all'assemblea il dovere di provvedere alle opere di manutenzione di carattere straordinario, in virtù del contenuto dell'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c.

La misura della responsabilità di ciascuno è poi stabilita dall'art. 1126 c.c., che, in tema di ripartizione delle spese di riparazione e ricostruzione, le imputa per un terzo al proprietario (o usuario) esclusivo del lastrico e per i restanti due terzi al condominio.

Ovviamente è fatta salva la prova da parte di quest'ultimo dell'imputazione del danno alla condotta colpevole del solo proprietario o del titolare del diritto esclusivo.

La soluzione, nel concreto, non diverge da quella del 1997, che già aveva distribuito la responsabilità nelle quote del terzo per il condominio e dei due terzi per il singolo proprietario-usuario.

All'epoca, tuttavia, diverso era l'inquadramento normativo che la Corte aveva effettuato.

Piuttosto che far riferimento al disposto dell'art. 2051 c.c., ed al generale principio del neminem laedere, i Giudici di Piazza Cavour avevano ricollegato la responsabilità in parola alla titolarità del diritto reale, configurandola quale immediata conseguenza dell'inadempimento dell'obbligo di conservare le parti comuni, posto a carico dei singoli condomini ex art. 1123, comma 1, c.c. e del titolare della proprietà superficiaria e dell'uso esclusivo ex art. 1126 c.c.

La giurisprudenza successiva non si era tuttavia uniformata all'impostazione data dalla Corte, essendosi registrate alcune decisioni che riconducevano tale responsabilità nell'ambito di applicazione dell'art. 2051 c.c.

Da ciò la nuova rimessione alle Sezioni Unite e la sentenza in commento.

La riconduzione di tale tipologia di danno nell'alveo della responsabilità civile comporta l'applicabilità alla fattispecie di tutte le norme in tema di responsabilità extracontrattuale, comprese quelle relative ai termini di prescrizione, nonché all'imputazione della responsabilità.

Conseguentemente potrà ritenersi responsabile esclusivamente il soggetto che risultava titolare del diritto di proprietà o dell'uso esclusivo del lastrico al momento del verificarsi del danno, escludendo l'eventuale acquirente successivo.

Trovano inoltre applicazione il principio della responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. e l'intera disciplina dell'art. 2051 c.c. per quanto concerne i limiti alla esclusione della responsabilità del custode.

La sentenza n. 9449 del 10 maggio 2016 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/sentenze.page

Carta di credito: obbligo di custodia e di denuncia tempestiva alla banca in caso di furto

La corte di Cassazione, con sentenza Sez. I,  07 aprile 2016, n. 6751, si è pronunciata circa gli obblighi di custodia della carta di credito in capo al titolare  ed alle conseguenze derivanti dell'omessa custodia della stessa ed alla non tempestiva denuncia del furto.

In particolare, la Corte ritiene, nel caso di specie, che fosse accertato un grave inadempimento del cliente alle obbligazioni nei confronti dell'Istituto di Credito.

In particolare  il titolare della carta di credito:
  1. non aveva diligentemente custodito la carta di credito nella palestra ove aveva esercitato attività motoria, tanto da subirne il furto;
  2. non aveva diligentemente verificato il perdurante possesso della stessa carta , tanto da essersi accorto del furto solo nella giornata successiva ;
  3. non aveva tempestivamente avvisato la banca dell'avvenuta perdita di possesso.

In conseguenza delle circostanze sopra esposte,  l'Istituto di emissione è legittimato a contestare al titolare della carta una colpa, facendogli  corrispondere un importo pari agli  acquisti effettuati dal ladro nelle more della denuncia.

La sentenza n. 6751 del 07 aprile 2016 della Sezione I della Corte di Cassazione è rintracciabile sul sito della Corte all'indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

Siti web degli avvocati: il nuovo art. 35 del Codice Deontologico

Nella Gazzetta Ufficiale scorso n. 102 dello scorso 3 maggio è stata pubblicata la delibera con cui il Consiglio Nazionale Forense ha disposto la modifica dell'art. 35 del Codice deontologico forense (link).

Il nuovo art. 35 recita:
«Art. 35 - Dovere di corretta informazione».
1. L'avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell'obbligazione professionale.
2. L'avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti nè equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l'attività professionale.
3. L'avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo professionale, la denominazione dello studio e l'Ordine di appartenenza.
4. L'avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia stato docente universitario di materie giuridiche; specificando in ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
5. L'iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso il titolo di «praticante avvocato», con l'eventuale indicazione di «abilitato al patrocinio» qualora abbia conseguito tale abilitazione.
6. Non è consentita l'indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente collegati con lo studio dell'avvocato.
7. L'avvocato non può utilizzare nell'informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi.
8. Nelle informazioni al pubblico l'avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorchè questi vi consentano.
9. Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi di dignità e decoro della professione.
10. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura.»
La modifica è volta a chiarire la portata della norma deontologica, aprendo alla libertà dei canali comunicativi (tramite l’inciso “quale che sia il mezzo utilizzato per rendere le informazioni”), ed eliminando il riferimento specifico alla disciplina dei siti web che la “vecchia” versione vietava nel caso di re-indirizzamento e/o in caso di contenuti di natura commerciale e/o pubblicitaria.

Qualsiasi mezzo è dunque ammesso (e dunque anche siti web con o senza re-indirizzamento), purché la informazione rispetti i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale e rispettando i principi cardine della professione di dignità e decoro.

Info: http://www.codicedeontologico-cnf.it/?tag=35-ncdf 

Appalto: i difetti relativi all'isolamento acustico possono costituire gravi difetti costruttivi ex art. 1669 c.c.

Con sentenza n. 12818 pubblicata il 13 novembre 2015, la sezione VII del Tribunale di Milano ha ricondotto il problema dell'inadeguato isolamento acustico di un edificio alla categoria del grave difetto costruttivo rientrante nella tutela di cui all'art. 1669 c.c.

Come chiarito dal Tribunale, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità la nozione di difetto di costruzione ricomprende anche alterazioni che non investono parti essenziali dell'immobile, ma quegli elementi secondari o accessori funzionali all'impiego duraturo dell'opera e tali peraltro da incidere in modo considerevole sul godimento dell'immobile.

Sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica, che ha constatato l'idoneità di tali difetti a pregiudicare in modo sensibile il godimento e la utilizzazione delle unità abitative, e dunque ad incidere sulla funzione abitativa del bene, il Giudice ha condannato appaltatore, progettista, direttore dei lavori e tecnici incaricati di predisporre la relazione sui requisiti acustici dell'immobile al risarcimento del danno.
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